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ISTRANA TRA CAMPAGNE E SIEPI

Caratteristiche del percorso:    Distanza:  56 km - Tempo di percorrenza: 4 ore -  Difficoltà: facile

In bicicletta dalla parrocchiale di Istrana, tra campagne e siepi ancora rigogliose e accoglienti, tra ponti e corsi d’acqua dai colori ancora buoni…

ISTRANA: UN PO’ DELLA SUA STORIA

 

L’origine del nome  di Istrana è affidato a varie ipotesi, ma la più attendibile sembra essere quella derivata da un agro locale di centuriazione romana che sarebbe stato imposto con la denominazione di “Charta Histriana”, ma non è da escludere quella secondo cui il toponimo deriverebbe dal nome di persona romano “Histrius”, che era forse il proprietario di una villa rurale in questo luogo, intorno alla quale poi si sviluppò un nucleo abitato.

Per alcuni poi, il nome deriverebbe dai soldati venuti dal fiume "Istro" ( il Danubio ) o dall'Istria.

Per altri ancora, si tratterebbe della conseguenza dell'insediamento da queste parti di una nobile famiglia di nome Istrana. Tra le varie ipotesi che si fanno in ordine all'origine del nome “Istrana”, vi è quella che vede come protagonista il fiume Piave. Il grande fiume scorre ora a nord est di Istrana e ad almeno una ventina di chilometri. Cosa c’entra allora Istrana con la Piave? Per prima cosa occorre tornare all'antico nome del fiume Piave che è “Istro”, lo stesso nome del Danubio tra l'altro.. Di qui la Piave scorreva infatti prima che, profondi mutamenti geologici ne confinassero il suo scorrere ora molto più a nord. Si tratta di 30.000 anni fa almeno e quindi l’origine del nome associata al nome del Piave è tutta da dimostrare.

In ogni caso l’origine del nome sembra risalire all'epoca romana, come confermano anche i molti reperti archeologici rinvenuti nella zona.

La storia di Istrana, non è sostenuta da grandi documenti . I più antichi risalgono al 1816 e sono oggi custoditi negli archivi comunali. Si dice che tutti gli altri documenti fossero andati distrutti in un incendio. Per questa ragione dovremo ricorrere a fonti diverse, non direttamente riferibili a Istrana. Dopo la dominazione romana, subì le invasioni barbariche. Poi secoli di cui storicamente non vi è alcuna traccia. Il primo documento in cui compare per la prima volta il nome di Istrana è datato 1152. Si tratta di una bolla di Papa Eugenio III in cui Istrana ( la sua villa ed il suo castello) sono ricordati come proprietà del Vescovo di Treviso, tale Bonifacio. Era il tempo in cui i vescovi accrescevano il loro potere temporale a seguito di lasciti dei potenti dell’epoca. Si trattava quindi di “ certificarne” la proprietà.Sentiamo parlare di Istrana poi, nel 1200 laddove gli istranesi sono citati come validi combattenti a fianco dei trevigiani nella guerra contro Ezzelino da Romano.Passiamo quindi alla seconda metà del 1300 ove la comunità di Istrana viene citata in disaccordo con il vescovo di Treviso in ordine al modo e ai tempi con i quali effettuare la falciatura dei campi.

ANTICO CORSO DELLA PIAVE.jpeg

Era il “meriga”, solo lui che aveva questo potere! Il meriga era la persona posta a capo di un comune rurale che, in Veneto e Friuli, indicava una piccola unità amministrativa corrispondente, nella gran parte dei casi, a un villaggio. Il meriga veniva eletto o sorteggiato durante la “vicinia”, l'assemblea dei capifamiglia. I compiti del meriga erano molteplici: doveva esercitare la giustizia, imporre le multe, riscuotere le tasse; organizzare una forza di polizia, controllare i traffici delle merci, regolare lo sfruttamento delle terre comuni, sovrintendere ai lavori pubblici; infine, stilare l'elenco dei coscritti. Una sorta di Sindaco! Vi fu in seguito il dominio della repubblica di Venezia che assicurò alla popolazione locale secoli di relativa pace. E’ questo il periodo delle “acque”. Anche il territorio di Istrana è destinatario delle opere di ingegneria idraulica ( canali, canalette ecc.) che si realizzano in questa fase e che, con l’acqua, portano anche una relativa prosperità a queste terre. Il periodo veneziano finisce nel 1796 con la caduta di Venezia. Inizia la fase “austriaca” di queste terre.

… ci fermiamo qui con la nostra storia. Riprenderemo più avanti. E’ ora tempo di prendere la bici e iniziare il nostro viaggio. Partiamo dal centro di Istrana, da Piazzale Roma e precisamente dalla piazza ove si trova il complesso di “Ca’ Celsi”.

Antica abitazione risalente al 1700 dell’omonima famiglia patrizia Veneziana. Qui nel corso del ventennio fascista trovò sede anche la “Casa del Fascio”. Oggi è sede del “consiglio comunale” di Istrana. Un tempo qui si palesavano stucchi di pregevole fattura e anche un pregevole pavimento della scuola palladiana.

CA' CELSI

CA' CELSI

Lasciamo il piazzale davanti a Ca’ Celsi e dirigiamoci a ovest verso il semaforo.

Sulla nostra destra notiamo una banca. Ma questo è un luogo particolare, quanto meno per coloro che ricordano cosa c’era qui un tempo: proprio qui sorgeva un pino contraddistinto da un cippo posto a ricordo della morte del figlio di Bruno Mussolini, il figlio del Duce. L’area che stiamo attraversando, ovvero la “piazza”, è uno dei luoghi che in Istrana ha subito le maggiori trasformazioni nel corso degli anni. Un tempo un semplice prato, poi, luogo della vecchia scuola, e poi nei primi anni 70, luogo di raduno del popolo Rom per la festa di Maria Assunta. Nel 1972 poi, le  scuole vengono demolite per far posto ai negozi ed uffici che oggi vediamo.

Attraversiamo ora il semaforo e andiamo a ovest per circa 500 metri. Stiamo per andare verso la "vera chicca" di questo territorio: Villa Tamagnini -Lattes.

VILLA TAMAGNINO-LATTES

Villa Tamagnino Lattes è una villa veneta realizzata ad Istrana, dall'architetto veneziano Giorgio Massari. L'opera, edificata probabilmente intorno al 1715, fu commissionata da Paolo Tamagnino. La villa prende il nome dal suo ultimo proprietario, l'avvocato Bruno Lattes. Villa Lattes viene considerata il primo importante lavoro del Massari, dal momento che l'architetto veneziano presiedette alla sua costruzione dalla giovane età di ventotto anni. Tra l'architetto e l'agiato mercante committente, con ogni probabilità, correvano rapporti di amicizia se non di parentela, ipotesi supportate dal fatto che Giorgio Massari risulterà l'erede della villa alla morte del Tamagnino.

La struttura. La villa è incorniciata da due barchesse colonnate ad andamento curvo che ospitavano le strutture per le attività agricole (allevamento dei bachi, tessitura della seta). L'ingresso al corpo centrale si raggiunge passando attraverso il piccolo parco antistante la struttura. Lungo il muro di cinta si colloca una chiesetta, proprietà della villa. L'esterno è piuttosto sobrio, mentre all'interno sono conservati gli innumerevoli oggetti (automimeccanismi e carillons) acquistati da Bruno Lattes, ultimo proprietario della villa, nei suoi lunghi viaggi. Villa Lattes vanta una collezione di carillons tra le più ricche d'Europa.

Villa Lattes venne commissionata dal mercante veneziano Paolo Tamagnino, raffigurato in un ovale marmoreo a bassorilievo tuttora conservato nella chiesetta annessa alla villa.

villa lattes.jpg

La data, 4 luglio 1715, rinvenuta sul retro della pala d'altare nella stessa chiesetta, relativa alla collocazione dei dipinti, è da ritenersi la data entro cui collocare tutti gli edifici dell'architetto Massari. Non vi sono documenti che accertino la paternità della villa al Massari, tuttavia è a lui riconosciuta per evidenti motivi di stile e per lo stretto rapporto che lo legava al Tamagnino. Morto il committente, nel 1735, il non più giovane Massari ne sposò la vedova Pisana Bianconi con la quale trascorse i suoi ultimi anni nella villa da lui stesso progettata; alcune ipotesi lasciano pensare ad un antico amore latente, portato avanti durante il matrimonio e felicemente concluso dopo la morte del Tamagnino. In realtà questo matrimonio serviva per garantire all'erede della sostanza ed alla usufruttuaria di unire gli scarsi introiti dell'eredità, gravata da non pochi oneri. Pisana Bianconi, che non ebbe figli dal primo matrimonio, a causa dell'età avanzata tantomeno poté darne al Massari.

Alla morte di quest'ultimo, avvenuta nel 1766, su disposizioni del Tamagnino, che in vita aveva previsto la situazione, la villa con tutti i terreni di pertinenza passò a Giandomenico Bianchi; dal 1772 alla famiglia Negri e nel 1842 venne acquistata da Abramo Lattes. L'ultimo proprietario della villa fu l'avvocato Bruno Lattes che l'ebbe in eredità dalla famiglia. Negli ultimi anni della sua esistenza dedicò tempo ed energie per riportare la struttura della villa ai fasti perduti.

Bruno Lattes era figlio di una benestante famiglia israelita insediatasi a Treviso nei primi anni dell'Ottocento; si laureò poco più che ventenne e all'età di 23 anni conseguì la libera docenza in diritto civile. Questa figura, amante della musica, dell'arte, della buona cucina e delle belle donne seppe condurre una carriera impeccabile tanto da essere considerato uno dei maggiori civilisti del foro trevigiano. Il Lattes è ricordato anche per la sua generosità; nelle sue campagne infatti trovarono occupazione numerosi fittavoli della zona e si narra che mai nessuno venne cacciato per morosità o ritardo nei pagamenti. Al suo buon gusto e al suo amore per le arti si devono gli arredi, il parco e i numerosissimi oggetti portati dai suoi lunghi viaggi.

Su disposizioni del Lattes, alla sua morte, la villa venne lasciata al comune di Treviso; non fu ereditata dal comune in cui sorge per le preoccupazioni del proprietario riguardo allo stato di conservazione e manutenzione di beni storico-artistici già presenti e, non improbabile, per i dissapori con la popolazione locale alimentati negli anni del secondo conflitto mondiale a causa della persecuzione degli ebrei; il Lattes infatti era di famiglia israelita.

VILLA LATTES

Poco si sa di certo sulla formazione del Massari ma, essendo villa Lattes la sua prima grande opera, analizzandone attentamente lo stile si possono cogliere i modelli di riferimento del giovane architetto. Dal punto di vista compositivo si distinguono un corpo centrale emergente e due corpi ad esso collegati minori per altezza, poi la chiesetta e due padiglioni sul retro. Il complesso, così com'è descritto, si pone nella tradizione della campagna veneta a quel tempo già costellata dalle numerose ville palladiane e non solo. La distinzione volumetrica scandisce le diverse funzioni dei corpi: l'apparato centrale è la casa dominicale, unita per mezzo di archi terrazzati ai due volumi laterali, le barchesse, destinate ad uso agricolo. Analizzando la pianta e l'alzato della dimora padronale si può ritrovare la consueta tripartizione verticale ed orizzontale del volume, diffusissima nei palazzi veneziani. Una delle riprese palladiane più evidenti è certamente l'asse centrale che collega visivamente il cancello centrale d'ingresso con il cancello posteriore che chiude il brolo, passando naturalmente attraverso il salone centrale del corpo padronale e il lungo viale scandito da sculture che termina in un ninfeo. Un altro motivo palladiano si riscontra osservando l'andamento dell'abbaino, le cui ali traforate da due oculi ricordano la parte terminale delle barchesse di villa Barbaro-Volpi di Maser, nella quale questo profilo fungeva da stratagemma per mascherare le colombaie con l'inserimento in facciata di due meridiane. Il gusto palladiano via via si affievolisce con l'incurvarsi delle barchesse, motivo che testimonia come il Massari sentisse l'influenza del Barocco e del Barocchetto . Dunque il giovane architetto veneziano con garbo e rispetto riesce ad impadronirsi del linguaggio della tradizione e allo stesso tempo crea qualcosa di nuovo grazie all'integrazione di nuove forme; si può parlare di innovazione nella tradizione architettonica locale.

Il parco. Il piccolo parco oggi appare sotto le sembianze volute dall'avvocato Lattes intorno agli anni '30. Il progetto e la disposizione di piante, specchi d'acqua e statue sono stati curati dall'architetto Guido Costante Sullam che, seguendo l'impianto planimetrico del Massari, mantiene il perimetro ellissoidale del giardino anteriore e inserisce dei trofei nel muro perimetrale settentrionale e colloca la fontana dei putti presso la barchessa orientale interpretando così dei punti di fuga strategici per chi ammira il giardino.

Solamente due delle statue presenti sembrano essere quelle originali della villa, le altre sarebbero state acquistate dal Lattes al mercato antiquario. Esse rappresentano divinità della mitologia classica, una in particolare sembrerebbe raffigurare l'allegoria dell'Inverno; in essa Lattes vedeva la rappresentazione del non lontano Montello. Il parco settentrionale invece era tenuto a brolo (con vigneto e frutteti). Al tempo dell'avvocato il brolo era delimitato da due lunghe peschiere (oggi interrate) sulle quali si specchiava la serie dei dodici Cesari, quasi a ricordare il Canopo di villa Adriana a Tivoli. Sui lati minori il brolo è delimitato da due padiglioni con portale e lesene a bugnato dal gusto barocco. Le uniche sculture presenti nella villa dall'epoca della sua fondazione sono due statue attribuite ad Orazio Marinali erte su alti plinti poligonali. Si tratta di una figura maschile seminuda con un elmo deposto ai piedi ed una femminile indossante elmo ed armatura recante un globo. Non è certo facile una loro interpretazione, si tratta probabilmente della pace e della guerra, o della fortezza e della poesia, o ancora dell'estate e l'inverno. La serie dei busti dei dodici Cesari, in marmo greco, scandiscono elegantemente il ritmo del viale nel giardino nord. L'iconografia di ogni singolo imperatore si riallaccia alla tradizione rinascimentale frequente in pittura e talvolta espressa in scultura: le variazioni riguardano sia la fisionomia sia i drappeggi del manto sopra l'armatura.

La chiesetta è di modeste dimensioni e si trova incastonata nel muro di cinta della villa e funge da punto di contatto tra i signori che vi accedevano direttamente dal giardino e dal popolo di villici che entrava dalla strada. La pianta è ottagonale e l'influsso Barocco. Le facciate adiacenti a quella centrale ospitano ciascuna una nicchia con la statua di un santo. Un basso muretto e un pregevole cancelletto, disegnato dal Massari, in ferro battuto a riccioli barocchi cinge la chiesetta riservando uno spazio intimo pregno di sacralità. L'interno è a sala unica, sobria e luminosa, movimentata dagli aggetti dei portali ed arricchita dagli arredi e dai dipinti. La pala d'altare, "Immacolata Concezione", e la tela sulla volta, "Padre Eterno", sono state commissionate direttamente da Paolo Tamagnino a Jacopo Amigoni.

Entriamo in villa! Planimetricamente l'interno segue la tradizione veneta con il consueto salone passante centrale e le sale laterali per le varie attività del vivere. Questo schema si ripete al piano superiore mentre l'attico è occupato da due camere ed un disimpegno. Tutte le stanze sono semplici e luminose ad eccezione dei saloni che sono impreziositi e movimentati da timpani aggettanti sulle porte e da lesene tuscaniche sulle quali poggia una trabeazione che incornicia l'intero ambiente. I soffitti sono formati da travi squadrate alla Sansovina. Tutti gli oggetti che arredano le stanze sono lo specchio della mente giocosa e curiosa dell'avvocato Lattes che nella sua permanenza sempre cercò di scoprire caratteri e particolarità dei suoi predecessori nella villa e non solo, vi portò innumerevoli ricordi, spesso bizzarri, dai suoi viaggi. Tra i dipinti presenti figurano la "Nereide rapita", il "Contadino con olla e contadino con tacchino"; poi le ceramiche savonesi; i busti. Nel salotto orientale, che conserva il pavimento ligneo originale, si trovano i ritratti di Pisana Bianconi, Giorgio Massari e Bruno Lattes. Anche il salotto occidentale conserva l'originale pavimento ligneo, curioso è il ciclo pittorico della "Parabola del figliol prodigo" nella quale il Lattes identificava la vita del Massari, a suo avviso libertina in gioventù. La cucina è senza ombra di dubbio la stanza che più restituisce la tiepida atmosfera della vita nelle tipiche case venete grazie al focolare, alla grande stufa in ghisa e un insieme di rami che decora l'arcone e le pareti del secchiaio. La sala da pranzo invece conserva l'originale caminetto in marmo di Carrara e le stoviglie personalizzate con le immagini della villa disegnate dal Malossi ed eseguite dalla ditta Tommasini. La camera dell'avvocato, secondo le dicerie testimone di giochi erotici ineffabili, è in realtà arredata con buon gusto, e, cosa strana per un ebreo dai miti tratti atei, è la presenza di un inginocchiatoio sotto ad un crocefisso. 

Emblema della generosità del Lattes è la camera degli ospiti, preziosamente arredata ed ospitale, non solo, è direttamente prossima ad un grande e moderno bagno dotato di acqua corrente calda e fredda, una vera sciccheria per quei tempi nella pianura veneta

Le collezioni. Tra le collezioni del Lattes sono da annoverare le raccolte orientali, lo stendardo imperiale cinese, le ceramiche céladon, i vetri e le ceramiche cloisonnés. Nel suo libro, Memorie di un avvocato ottimista, l'avvocato Lattes espresse il desiderio di voler raccogliere quanto di gioioso e burlesco avesse allietato la sua vita e di omettere quanto fosse stato doloroso e infausto. La sua raccolta di giocattoli meccanici, che essenzialmente sono oggetti musicali, rispecchia la sua passione per la musica, fin da giovane si dilettava distintamente al violoncello. Nel 1953 il Lattes accolse uno dei massimi esperti nel campo dei meccanismi, Alfred Chapuis.  Nella sua visita in compagnia di un altro insigne conoscitore della materia, Enrico Morpugo, lo Chapuis affermò che la collezione Lattes raccoglieva elementi unici di cui nemmeno poteva immaginare l'esistenza. La raccolta infatti era piuttosto varia, dal semplice carillon alla "monferrina" e al cosiddetto armonium. I carillons sono spesso nascosti all'interno di cofanetti o soprammobili, spesso recanti un effetto sorpresa. Tra i giocattoli vi sono bambole, uomini o animali che si muovono compiendo gesti simili al vero. Tra i meccanismi più rari ed interessanti si annoverano: il Tamburino, esemplare unico e mai ripetuto risalente alla metà del '700, sfiora il metro di altezza ed indossa la divisa della milizia veneta. Il corpo è in legno dipinto, i capelli sono naturali, le scarpe sono in pelle. L'oggetto, se accuratamente caricato, funziona tutt'oggi; il marchese fumatore: di produzione francese. La sigaretta che regge in mano fuma davvero grazie all'aria aspirata ed emessa da un piccolo mantice; la scimmia che suona il banjo: è l'unico esemplare di animale umanizzato della raccolta. La scimmia elegantemente vestita simula il gesto del pizzicare lo strumento e il canto, muovendo la bocca; L'indovina: questo pupazzo dall'espressione stregonesca si esibisce su una scatola contenente le pedine del domino, il suo movimento fa in modo che la bacchetta magica indichi il numero da cui avrà inizio il gioco; la bambola che si incipria: graziosa ed elegante questa bambolina alterna il gesto di portare al viso il piumino e lo specchio; il pagliaccio che suona l'arpa: interessante per i materiali impiegati, la testa infatti è di celluloide, il pupazzo suona un'arpa dal suono più prossimo a quello di un'arpa scordata; la pianista: di esemplari complessi se ne producevano in Germania e Svizzera, quello del Lattes è assai semplice ma delicato. La bambolina suona un walzer che, stranamente, non corrisponde alla musica scritta nel piccolo spartito sul piano; la bambola con la gabbietta: ha acconciatura e abbigliamento da bambina, il suo gesto eseguito al suono del carillon fa sì che si apra la gabbietta, che reca in mano, e si intraveda un uccellino; la bambola che cammina: di produzione parigina. Mostra un elegante quanto aggraziata dama che, al suono del carillon, muove il ventaglio e l'occhialino. La bambola inoltre si muove grazie a piccole ruote su un binario, il suo lungo vestito nasconde il meccanismo facendo sembrare realistica la sua avanzata; l'escamoteur: questo meccanismo imita il tradizionale "gioco dei bussolotti" che si poteva trovare nelle fiere e nelle sagre paesane in cui il giocatore doveva indovinare sotto quale contenitore si trovasse la pallina. Questo automa, dal tema orientale, vede un pupazzo che alza alternativamente le braccia coi bussolotti e mostra la pallina che compare e scompare. Il suo meccanismo non è più funzionante; l'uccellino in gabbia: pregevole la sua fattura, riproduce un uccellino in gabbia, il suono che produce è accompagnato dal cinguettio dell'uccellino, simile al canto di un usignolo; gli uccellini sul ramo: giocattolo piuttosto complesso; è formato da un gruppo di uccellini imbalsamati appollaiati su più rami, un orologio e una colonnina di cristallo che ruotando simula una cascata d'acqua. Gli uccellini cinguettano producendo un suono gradevole e rilassante; la boîte à musique: con questo termine si indica il meccanismo che produce il suono del carillon, contenuto in un cofanetto che fa da cassa armonica. Nella collezione Lattes ve ne sono di diversi modelli, alcuni di grandi dimensioni come ad esempio quello prodotto dai fratelli Mermod, che raggiunge il metro di lunghezza. Il coperchio è solitamente in vetro per permettere di osservare il raffinato meccanismo in funzione; la monferrina: strumento che accorpa il meccanismo del carillon alla struttura dell'organo. L'esemplare di villa Lattes è ad oggi funzionante e sembra essere stato prodotto da Nicolao Denis, di Torino; la veduta con la torre dell'orologio: costituisce l'unico esemplare della collezione Lattes in cui si può perfettamente vedere il funzionamento del meccanismo solitamente celato dei carillons. Quest'opera si presenta come un quadro in cui è rappresentato un paesaggio dove una torre mostra un orologio funzionante, allo scoccare dell'ora infatti si attiva il suono delle campane con tanti rintocchi quanti corrispondono all'ora. Il meccanismo si può osservare sollevando la tela del dipinto; la nave nella tempesta: privo di suono musicale. È costituito da una boccia in vetro su piedistallo contenente il meccanismo, ospita in primo piano degli scogli e delle onde in cartapesta che si muovono a simulare una tempesta della quale è vittima un veliero dalle vele ammainate sullo sfondo della composizione; il telefono bar: emblema del carattere giocoso del Lattes, si presenta con le sembianze di un telefono che, non appena azionato con il gesto di fare una telefonata, fa suonare la musichetta del carillon. Il gioco termina con l'apertura del telefono e l'esibizione di un servizio da rosolio. Lo strumento è di produzione francese ma, con sorpresa, il suono riproduce il "Dio salvi la regina", inno nazionale inglese. Con ogni probabilità quello del telefono bar è l'ultimo gioco cui l'avvocato sottoponeva i suoi ospiti offrendo loro il cosiddetto bicchiere della staffa.

Curiosità

  • Nella villa di Istrana si sono girate alcune scene del film "Signore e signori" di Pietro Germi e dello sceneggiato televisivo "Dei miei bollenti spiriti" del regista Sandro Bolchi.

  • Nel gennaio 1979 dei ladri hanno trafugato un'opera rarissima, il "Giuseppe Brona, capitan di mar". Pochi anni dopo l'opera fu ritrovata in una galleria di Londra mentre stava per essere venduta all'asta.

  • Abramo Lattes fu coinvolto in un contrasto con l'allora Vescovo di Treviso. Quest'ultimo infatti chiedeva al Lattes di murare la porta che dalla chiesetta porta alla villa e di mantenere aperta al pubblico quella rivolta alla strada. Era evidente che il Vescovo poco tollerava la possibilità che un ebreo, il Lattes, potesse entrare in un tempio cristiano. Il Lattes naturalmente si oppose con pugno fermo e con indignazione dal momento che, a sue spese, aveva ripristinato una struttura cristiana (nonostante professasse un altro credo) e l'aveva generosamente aperta alla gente di Istrana. Minacciando di ridestinarla ad uso agrario e di chiuderla per sempre alla popolazione, vinse la controversia.

  • Quando il Lattes era ancora vivente fu il destinatario di una lettera del Massari, giunta direttamente dai Campi Elisi. Si tratta dell'ennesima trovata giocosa e quasi auto celebrativa dell'avvocato consistente in un falso storico, un documento scritto su pergamena in eleganti caratteri e decorato da schizzi di parti della villa, in cui l'architetto si complimenta per aver riportato la villa ai fasti settecenteschi.

Ebbene, dopo aver visitato Villa Tamagnino - Lattes, torniamo sui nostri passi, cioè torniamo indietro in direzione est su via Nazario Sauro; facciamo quindi circa 250 metri ed entriamo a sinistra in via Aldo Moro. Avanti per altri 500 metri circa e quindi a destra su via A.Diaz. Sulla nostra destra una "chiesetta".

ORATORIO SANTA ELISABETTA

E’ un piccolo oratorio edificato nel 1856 sui resti di una vecchia costruzione del 1500. La chiesa è dedicata a Santa Elisabetta. Perché venne dedicata a Santa Elisabetta? Semplice, la santa è la madre di Giovanni il Battista, patrono di Istrana.  Gli oratori, erano dei luoghi di culto e di preghiera che venivano eretti normalmente in luoghi lontani dalla chiesa parrocchiale principale. Luoghi di culto e di preghiera “feriale” cioè per i giorni non “comandati” che avevano quindi la funzione di rendere agevole la pratica cristiana anche per quei pezzi di popolazione che si trovavano distanti dal centro cittadino. La storia di questa “chiesetta” non è delle più semplice. Si racconta infatti che la scelta del luogo ove edificare questa chiesetta non fu facile in quanto il luogo scelto era troppo vicino ad una osteria, quelle “alle due oche”. Alla fine prevalse la tesi della convivenza di “sacro e profano” e qui venne eretta la chiesetta.  All'interno poi, da segnalare in particolare la pala dell’altare maggiore dedicata a Santa Elisabetta opera del Lorenzi. Se entriamo in sacrestia poi, un’altra pala di un pittore minore.

SANTA ELISABETTA

Bene, lasciamo la chiesetta e andiamo dritti superando l'incrocio in direzione sud. Circa 60 metri più avanti entriamo a sinistra in via Marani e andiamo avanti per altri 300 metri sino a sbucare in via delle Alpi. Prendiamo la ciclabile che c'è sulla nostra destra.  Il nostro obiettivo ora è via Padernelle, a mio parere una delle più belle vie “tra siepi e campagne” del nostro territorio. Altri 800 metri e giriamo a destra. Ci siamo!

VIA PADERNELLE

La stradina per un primo tratto è asfaltata, ma più avanti inizia un dolce sterrato. Via Padernelle, finisce in prossimità di un gruppo di abitazioni (percorsi altri 700 metri). Usciamo su via del Capitello e teniamo la destra. Poco più avanti sulla nostra sinistra ecco l’imponente Capitello di San Giovanni Battista.

CAPITELLO S. GIOVANNI BATTISTA

Costruito in epoca abbastanza recente (risale infatti al 1913), non è noto a chi si debba la sua costruzione. Oggi è posto in una posizione infelice, stretto tra la statale e le costruzioni che tutto attorno ne hanno soffocato la prospettiva e lo sguardo. Ma un tempo qui era tutta campagna. E’ stato costruito sulle rovine di un più antico capitello qui eretto in occasioni delle celebrazioni del XVI anniversario dell’editto di Costantino. Un capitello molto simile di autore ignoto come questo si trova anche a Zero Branco.

SAN GIOVANNI

Attraversiamo la statale e proseguiamo in via del Capitello. Facciamo circa 150 metri e all’altezza di una curva a sinistra, noi teniamo la destra. Facciamo ancora 200 metri. Alla nostra sinistra ora “l’antica osteria alle Due colonne” e alla destra il complesso delle scuole medie. Poco più avanti sulla nostra destra, una “strana costruzione”.

IL CIPPO AI CADUTI

Partiamo da un presupposto! Istrana, diversamente da altri paesi non possiede un cippo monumentario a ricordo dei caduti delle guerre, o meglio non ne presenta uno dotato di una sua autonomia architettonica. In realtà questo che vediamo ha quella funzione, ma si tratta semplicemente della parte terminale di un fabbricato posto dietro al cippo con funzioni di sala teatro. Si tratta quindi di un arco trionfale a “chiudere” il complesso architettonico del teatro dell’asilo.

IL CIPPO

… a proposito di guerre!

 

La prima guerra mondiale e Istrana. Nella prima guerra Istrana fu immediata retrovia fungendo in particolare da infermeria militare rispetto agli aspri combattimenti che si svolgevano più a nord come per es. sul Montello. Istrana è ricordata per la battaglia aerea che si svolse nei suoi cieli il 26 dicembre 1917, battaglia passata alla storia con il nome di “Battaglia di Istrana”. Si ricordi in particolare che nelle campagne di Sala aveva sede un campo di aviazione da cui il mitico Francesco Baracca partiva per le sue imprese.

 

La seconda guerra mondiale e Istrana. Nella seconda guerra essendo zona strategica fu bombardata e fu “prima linea” nel senso completo, con punte drammatiche che fanno capo alla indimenticabile notte del 29 aprile del ’45 quando diventò campo di battaglia fra tedeschi e alleati. La popolazione fu tenace nella ricostruzione morale e fisica di un difficile dopoguerra. E affrontò una ulteriore prova: quella dell’avvento dell’aeroporto militare che spazzò via campagne e famiglie…

Ma torniamo a noi e al nostro giro in bici! Superato l’arco o cippo ai caduti poco più avanti ecco palazzo Moretti, l’attuale sede Municipale.

PALAZZO MORETTI - LA CASA MUNICIPALE

Dal 1950, salvo rari intermezzi, è la sede del Comune di Istrana. Era la villa residenziale del nobile Adimaro Moretti. Il luogo della villa era occupato già dal 1680 da un fabbricato a due piani. Qui davanti un tempo, vi era un bosco davvero lussureggiante. Qualche albero oggi ne è il superstite. E poi, antiche statue come quella raffigurante “il tempo” oggi posta all’interno del complesso. Il primo nome da associare alla villa è quello della famiglia Rizzi, famiglia che detenne l'originaria villa sul finire del secolo XVIII.  Di questa famiglia ed in particolare di Urbano Rizzi, si ha un ricordo inciso in una lapide posta sul frontale della chiesa Parrocchiale 

PALAZZO MORETTI

Lasciamo Palazzo Moretti e poco oltre entriamo a sinistra in Viale Europa, il viale della stazione ferroviaria. (Abbiamo percorso altri 300 metri). Poco più avanti e quindi fatti altri 100 metri ecco la stazione ferroviaria 

STAZIONE FERROVIARIA

Teniamo la stazione sulla nostra destra (messa in opera nel 1877) e percorriamo una stradina sterrata che corre vicino ai binari per altri 200 metri. Usciamo e alla nostra destra ecco il sottopassaggio ferroviario. Bici in spalla e risaliamo. Davanti a noi ecco tutto il complesso parrocchiale di Istrana. Da qui parte il nostro “immergersi nel cao de soto” il vero nucleo storico di questa comunità. Subito alla nostra sinistra ecco il campanile, quello con la torre, quello che ti fa dire:” siamo ad Istrana”!

IL "PARTICOLARE CAMPANILE

L’originario campanile non è quello che oggi possiamo vedere. Il primo campanile infatti non aveva questa forma ed in particolare era a forma di cono, come quelli che siamo abituati a vedere un po’ dappertutto nella campagna trevigiana. Ma nel 1802, il primo campanile crollò a seguito di un temporale di rara potenza lasciando sotto le macerie la “perpetua”. L’attuale campanile venne invece costruito tra il 1830 ed il 1840 da Francesco Lazzari. Molto particolare è il disegno prodotto dalla muratura fatta da laterizi alternati da pietra d’Istria. Ma perché quella forma “a castello” nella sua sommità? Interessanti le spiegazioni che vengono date: la prima parlerebbe di un mancato completamento della cuspide per una valutata mancanza di staticità della stessa a causa della costruenda ferrovia che passava a raso della struttura, la seconda spiegazione avrebbe a che fare con il “mitologico “castello di Istrana” e quindi sarebbe stato volutamente costruito così proprio in memoria ed onore all’antico castello.  (Ancora oggi vi è sullo stesso campanile una lapide che lo ricorda).

IL CAMPANILE

LA PARROCCHIALE DI SAN GIOVANNI BATTISTA AD ISTRANA

La pieve di Istrana risulta fondata nel perdio che va dal VI al VII secolo. Così almeno pare. Di certo c'è che una traccia sicura la troviamo nell'anno 1000 in cui alla stessa è riconosciuto il titolo di chiesa di San Giovanni Battista. Una chiesa quindi in cui si poteva battezzare (cosa che in quegli anni era concessa a poche pievi). Una chiesa importante dunque. Si pensi che nel 1297 compare nel quaderno delle decime dovute alla Santa Sede e che nel 1314 è " caput plebs " una sorta di capo di un pezzo di diocesi insomma.  Nel 1419 la pieve ospitò una massiccia riunione di preti " concubinari" che si erano ribellati alle disposizioni emerse dal sinodo diocesano; una battaglia durissima tra il vescovo di allora e questi preti ribelli. L'episodio va sotto il nome di "antisinodo di Istrana".  Il primo cenno di tipo “storico” che si ha su questo complesso risale al 1452 se non altro per una menzione agli atti necessari ai lavori di rinnovo. Ma la sua ultima costruzione e quindi consacrazione risale al 1653. E’ una chiesa dotata di una sola navata e di evidente stile barocco. Le decorazioni ed i suoi stucchi sono del 1700 ed in particolare è nel 1780 che il pittore Francesco Zugno, discepolo prediletto del Tiepolo, ne dipinse il soffitto e il presbiterio. L’altare maggiore invece è attribuito a Giorgio Massari.  (Notizie tratte da Istrana tra cronaca e storia di Riccardo Masini)

PARROCCHIALE DI ISTRANA

Lasciata alle nostre spalle la Parrocchiale, ci dirigiamo ad ovest per qualche decina di metri (sulla nostra destra un dipinto votivo), su via Santo Stefano. Al primo bivio noi teniamo la sinistra. Stiamo per percorrere Via Morgana. Ma prima “el cao de soto”!

EL CAO DE SOTO

Se di Istrana si vuol parlare non possiamo dimenticare la vera Istrana, il nucleo storico di Istrana: il colmello del “Cao de soto”. Istrana è prima di tutto questa, quella che sta al di là della linea ferroviaria, quella che apre le campagne verso Villanova e verso Morgano. In realtà forse solo una delle due Istrana, quella contrapposta alla Piazza. Quelli del cao de soto fino a pochi decenni fa usavano sbeffeggiare quella della piazza fondando il loro primato sull’essere l’Istrana cristiana, non quella civica del Municipio, della provinciale o della piazza. Quelli della Piazza invece si prendevano gioco dei primi apostrofandoli con il nome di “Vaticano”! La storia però ci dice che a Cao de soto è nato il paese!

CAO DE SOTTO

Qui vicino (in via Storti) anche il leggendario castello di Istrana.

IL CASTELLO DI ISTRANA

Sopra l’arco della porta del campanile vi è una strana scritta: “AD VETERIS ISTRAN CASTEL MEMORIAM CURIALIS FECERINT ANNO D.NI MDCCCXXX”. Cioè, il campanile con la sua particolare forma a torre di castello, sarebbe stato eretto in quella forma in memoria dell’antico castello di Istrana. Castello ad Istrana? Dove? L’esatta collocazione sarebbe stata poco oltre l’ingresso in via Storti, sulla destra della via stessa e comunque a ridosso del “Cao de soto”. Leggenda o storia? Proviamo a dipanare la matassa!  Dapprima le bolle pontificie riportate dallo storico Fapanni: “nel sito appellato da paesani il Castellaro esisteva ai tempi di mezzo uno de’ soliti castelli. Lo tenevano i signori di Istrana…” Nella bolla di Papa Eugenio III del 1152 poi, si parla di Istrana come “Pieve di San Giovanni Battista di Istrana cum castro ed villa… “ove castro significa chiaramente castello. Ma poi altri riferimenti anche moderni, non da ultimo un luogo detto “casteller” nei dintorni e da ultimo una via che in qualche modo richiama questi fatti, via Casteller.

 

Finito el cao de soto teniamo la sinistra e procediamo su via Morgana. Facciamo circa 150 metri e alla rotonda proseguiamo dritti. Poco più avanti sulla nostra sinistra il complesso dei TRE FORNI.

I TRE FORNI

TRE FORNI

Superiamo i Tre Forni e procediamo in via Morgana. Qui la campagna comincia davvero ad aprirsi ai nostri occhi. Procediamo su questa strada per circa 500 metri sino a scorgere su un palo il piccolo capitello di Sant’Antonio. Entriamo a destra seguendo la traccia posta al limitare di un campo.

VERSO VIA CASTELLER

Facciamo circa 350 metri sino ad uscire a destra nei pressi di un complesso di abitazioni. Siamo ora in via Casteller. La facciamo per circa 500 meri sino ad uscire a sinistra in Via Storti. Facciamo via Storti (che più avanti diventa via delle Vegrone) per circa 450 metri sino a vedere sulla nostra sinistra una stradina sterrata. La prendiamo entrando in piena campagna. Il passo si fa duro e la traccia incerta ma teniamo la sinistra al primo grande cambio di direzione. Così, dopo aver viaggiato per altri 900 metri, usciamo nuovamente su via Morgana e giriamo a destra in direzione sud sull’asfalto. Facciamo circa 1,2 km e poi giriamo a destra in via della Madonnina. Altri 250 metri e quindi a destra su via Morgano. Stiamo tornando in direzione nord per raggiungere l’abitato della frazione di Villanova di Istrana.

COCIO

Usciamo dall'incrocio e procediamo dritti; alla nostra destra il complesso parrocchiale di Villanova ove spiccano la chiesa, il campanile e la canonica.

VILLANOVA

Villanova sorge all'estremità sud orientale del comune di Istrana. A meridione dell'abitato scorre il fiume Sile, attorno al quale si estende un'area di paludi e risorgive protetta da un parco naturale, il parco del Sile. Il paese viene citato per la prima volta in un atto vescovile del 1014, ma la prima traccia della sua esistenza si trova in un atto notarile dell’anno 997, ove questi luoghi sono indicati come sede succursale del monastero di Mogliano.

Il toponimo sembra derivare da “villa noviter facta” (paese di nuova fondazione). Qui infatti il vescovo di Treviso pose la sua giurisdizione facendosi costruire una villa, villa noviter appunto (IX-X secolo). Ma non è questa l’unica idea che possiamo rintracciare sull’origine del nome di Villanova; sembra che in realtà il nome Villanova fosse di una antica famiglia che da Treviso venne qui intorno al 1250 dando così il nome a queste terre.

Le Monache di Villanova. In questi luoghi, nella piena giurisdizione del Monastero di Mogliano Veneto, posero la loro residenza, dapprima i monaci e poi le monache. Di loro in particolar modo fu la badessa Gisla che nel 1196 chiese al Vescovo di Treviso il permesso di costruire qui una chiesa in onore di San Matteo Apostolo.

LA PARROCCHIALE DI VILLANOVA

PARROCCHIALE DI VILLANOVA
CAMPANILE DI VILLANOVA.JPG

La chiesa di Villanova, consacrata nel 1779, secondo Antonio Massari, sarebbe opera di Giorgio Massari, noto architetto veneziano autore anche di Villa Lattes. La costruzione di questa chiesa che dallo storico Fapanni veniva definita “una delle più compiute dei dintorni”, inizia grosso modo nel 1740. La sua facciata è di natura classicheggiante ed è dotata di quattro pilastri in stile corinzio.

 

Gli interni. Nel soffitto della navata abbiamo una rappresentazione della Vergine Assunta in cielo. Nel presbiterio invece un “Padre Eterno” attribuito a Giustino Menascardi. Di grande valore è ritenuta la pala opera di G.Zelotti raffigurante San Matteo. Posta sull’altare maggiore, questa pala è della seconda metà del XVI secolo. Altra pala antica di grande valore è quella posta sull’altare della Madonna: si tratta di un’opera della fine del secolo XVI attribuita nientemeno che a Palma il Giovane. La pala raffigura la Madonna con il bambino che si porge verso Santa Caterina da Siena, Sant’Antonio da Padova e San Giuseppe.

Sempre sulla destra della strada ecco la canonica.

CANONICA VILLANOVA

E le vecchie scuole elementari

VECCHIE SCUOLE ELEMENTARI VILLANOVA
Continuiamo il nostro viaggio su via Monte Santo per circa 600 metri sino a scorgere sulla nostra sinistra l’ingresso di Via delle Casette. Facciamo circa 200 metri e quindi entriamo a destra su via Graziotto. Ci inoltriamo in mezzo alla campagna per circa 500 metri sino a scorgere una stradina sterrata sulla nostra sinistra in prossimità di una curva circa. La prendiamo. Altri 400 metri e giriamo a sinistra. Così ancora per circa 150 metri sino a scorgere sulla nostra sinistra, i residui di una vecchia cava.
CAVA VILLANOVA
Avanti ancora per 300 metri e usciamo nuovamente in via Casette. Giriamo a destra. Fatti 150 metri circa sulla nostra sinistra il “vecchio abitato” di Villanova. Avanti così, accompagnati da questi “monumenti alla memoria” e arriviamo dopo circa 700 metri all’incrocio. Davanti a noi leggermente spostata sulla sinistra la “chiesetta della Madonna dell’Albera”

SANTUARIO DELLA MADONNA DELL'ALBERA

E torniamo alle monache di Villanova! Abbiamo già visto in precedenza come le stesse siano state già determinanti nella costituzione dell’antichissimo borgo di Villanova. Anche questa antica chiesetta, molto significativa per questa comunità ha a che vedere con le Monache! Torniamo quindi al secolo XIII: le monache, per replicare contro i frati benedettini che avevano interferito a suo tempo su una zona ritenuta di loro esclusiva competenza allorché piazzarono sulla strada per Padova un ospedale (da cui il nome Ospedaletto), costruirono a loro volta un ospedale con annessa una cappella intitolata alla patrona del loro monastero e cioè a Maria Assunta.  Ma perché questa chiesetta si chiama “All’Albera?” La ragione sta in un pioppo, sopra il quale la credenza popolare ritiene sia apparsa la Madonna ad una bambina storpia. La sua costruzione comunque venne ultimata nel 1724, anche se una chiesetta qui esisteva sicuramente almeno nei primi anni del 1600.

MADONNA DELL'ALBERA

Ripartiamo quindi. Superata la chiesetta dell’Albera entriamo a destra in Via del Bosco. Via del Bosco è un luogo particolare: a ridosso del Parco del Sile, oggi è una bellissima strada (il primo tratto è asfaltato), ma un tempo in queste zone ci si andava con la barca, quanto meno prima delle grandi bonifiche di inizio secolo. Procediamo così per circa 800 metri sino a giungere ad un bivio dominato da un piccolo capitello votivo dedicato alla madonna. Teniamo ora la destra e procediamo per 150 metri sino al bivio ove terremo la sinistra.Ora il nostro viaggio prosegue sotto siepi rigogliose per almeno 700 metri. 

VIA DEL BOSCO

E giungiamo, dopo aver superato un  fossato, sulle rive di un corso d’acqua. Siamo nei pressi del Canale Gronda.

CANALE GRONDA

GRONDA

Canale costruito nel 1945 per precisi scopi di bonifica, nel nostro percorso lo incrociamo versa la fine del suo scorrere. Poco più a sud infatti il canale si butta sul Sile andando così ad alimentare il bellissimo fiume verde.

Il nostro viaggio a ridosso del Gronda inizia appena usciti dal boschetto. Teniamo la sinistra, superiamo il ponte e giriamo a destra correndo lungo il lato destro del Canale.

SUL GRONDA

Facciamo così circa 400 metri sino a vedere sulla nostra destra un ponte. Noi proseguiamo dritti.

Procediamo ancora sino a giungere dopo circa 600 metri su un nuovo ponte. Poco prima le forti acque di un canale sulla sponda sinistra del Gronda: è il Rio! Nei pressi del ponte teniamo la sinistra e ci inoltriamo in una tranquilla stradina sterrata: siamo in Via del Rio. Fatti 300 metri ci imbattiamo in un capitello votivo. E’ il Capitello del Pin! Procediamo ancora tra dolci curve lungo questa via per circa 600 metri sino ad uscire in via Peschiera, una delle vie più tranquille e ben curate di questo territorio. In stagione non è difficile imbattersi in vere sinfonie di fiori ben curati sulle rive dei fossi che la descrivono.

VIA PESCHIERA

Giriamo quindi a destra sino a giungere, dopo 300 metri, all’incrocio con la provinciale (è la strada che collega Istrana con Badoere). La attraversiamo e ci dirigiamo a sinistra. Facciamo qualche metro ed entriamo subito a destra. Facciamo 150 metri e quindi giriamo a destra ancora. Siamo a ridosso della rete di recinzione di una nota industria di trasformazione di materie plastiche ma anche a ridosso della vecchia area denominata “delle fornaci di Istrana”. Qui un tempo regnava un’importante palude e quindi una zona umida di cui qua e là rimane ancora qualche traccia. Appena entrati nella via e poco dopo aver corso ai bordi della recinzione della fabbrica per circa 250 metri, teniamo la sinistra. Al primo cambio di direzione teniamo la sinistra.

VIA E PALUDI

Spettacolari davvero questi luoghi per una passeggiata di fine autunno! Anche se soli, saremo accompagnati dai suoni della brina che si scioglie… piccoli suoni ovattati ed improvvisi che guidano i nostri passi: da provare! Facciamo quindi altri 500 metri e sulla nostra sinistra possiamo notare cinque esemplari di Taxodium (cipressi della palude). Proseguiamo ancora per altri 300 metri sino a giungere all’incrocio. Alla nostra destra ecco altri esemplari di Taxodium. Giriamo a destra e procediamo per altri 700 metri sino a girare ancora a destra. Proseguiamo per altri 450 metri e dopo aver notato alla nostra destra una abitazione, andiamo avanti per altri 200 metri sino a giungere a trovare via dei Castellari sulla sinistra. Andiamo quindi avanti per circa 550 metri sino al ponte sul Gronda.

INVERNO AL GRONDA

Facciamo altri 450 metri sino a vedere sulla nostra sinistra un capitello votivo.

CAPITELLO DI VIA GARIBALDI.JPG
PANCHINE AL CAPITELLO DI VIA GARIBALDI.J

Andiamo avanti ancora per circa 500 metri sino a giungere all’incrocio che attraverseremo. Rimarremo così ancora su via dei Castellari. Procediamo ancora per circa 400 metri lungo siepi ancora buone, sino a svoltare a destra e poco dopo, notare sulla sinistra un nuovo capitello, quello che si trova in via Montenero, all’inizio di via Montenero.

IL CAPITELLO DI VIA MONTE NERO

Questo capitello è dedicato alla Madonna Immacolata. Una lapide ci ricorda il motivo della sua costruzione, in particolare sono i soldati di questi luoghi reduci della guerra 1940-45 ad erigere questo capitello in segno di ringraziamento per la vita avuta salva. Una particolarità: la statua della Madonna venne trasportata in bicicletta da Padova!

VIA MONTE NERO

Andiamo ancora avanti. Stiamo per entrare nel centro della frazione di Ospedaletto. Fatti altri 400 metri, un po’ nascosta sta le case, notiamo una strana “torre”. E’ la Colombera di Ospedaletto.

LA COLOMBARA DI OSPEDALETTO

LA COLOMBERA

La torre colombaia è una forma architettonica, utilizzata in diverse epoche per l'allevamento dei colombi. Nella maggior parte dei casi tali torri avevano forma circolare, ma potevano anche essere di forma quadrangolare (come questa di Ospedaletto). All'interno si trovavano le cellette che ospitavano i volatili per il loro allevamento. Spesso tali torri avevano la doppia funzione di torre colombaia e di torre d'avvistamento; ad ogni modo esse non avevano alcuna funzione difensiva attiva, data la loro inadeguatezza a tale compito, e potevano solamente essere d'aiuto per intimorire il nemico in arrivo, incapace di distinguere, per via della distanza, la reale natura della torre.

Andiamo ancora avanti per circa 100 metri sino a giungere all’incrocio con Via Garibaldi. Davanti a noi un capitello che richiama in parte le forme e lo stile di quello di San Giovanni ad Istrana, con una protagonista diversa: la Madonna! Attraversiamo ora l’incrocio ed entriamo in Via Chiesa, la via che ci conduce dopo poco alla Chiesa parrocchiale di Ospedaletto.

OSPEDALETTO

Il toponimo    E’ di immediata intuizione che il nome di questo paese ha a che vedere con un ospedale, un piccolo ospedale. E’ infatti nel secolo XI che qui i Monaci benedettini del Monastero di Polirone, località della provincia di Mantova, dopo una grande opera di disboscamento di queste terre e quindi di messa a coltivazione delle stesse, qui insediarono un piccolo ospedale dedicato ai viandanti bisognosi di cure, cure che venivano fatte con le erbe.

 

Un po’ di storia. Le sue origini sono antichissime. Ne fanno testimonianza importanti ritrovamenti di origine pre-romana. Nei documenti ufficiali però, la prima traccia di Ospedaletto si ha molto più tardi. Dei Monaci abbiamo già detto e anche del loro insediamento in queste terre nel corso dell’XI secolo. Ma Ospedaletto, ora di Istrana, in origine era denominato Ospedaletto di Cavasagra, rientrava cioè nella “giurisdizione” di Cavasagra, paese posto più ad ovest. Altra importante citazione di questa località si ha in un documento del 1294 ove si comunica che la chiesa di Ospedaletto passerà dai Monaci di Polirone a quelli della abbazia di S.Cipriano di Murano e quindi al patriarcato di Venezia nel 1587.

 

Ai tempi dei liberi comuni poi, Ospedaletto faceva parte di quello di Treviso ed in particolare era collocata nel “quartiere di mezzo”, uno dei quattro quartieri del Comune di Treviso.

 

Ospedaletto lega poi la sua storia anche a Ezzelino da Romano che in queste strade lasciò i segni di devastazione e di morte che si portava dietro con le sue celebri imprese. In particolare, proprio in questi luoghi si diede seguito ad una clamorosa congiura ordita da Can Grande della Scala contro la città di Treviso, allo scopo di conquistarla. Questa congiura però fallì!  

Dal 1339 questo territorio passò poi alla Repubblica di Venezia.

 

Storia di preti e miserie. Una particolarità di Ospedaletto è senz’altro il fatto che la sua storia sia spesso intrisa di preti che qui ebbero davvero vita dura. Nel 1773 si uccide con un archibugio l’allora parroco don Antonio Meneghini, dice il Fapanni, a causa delle vessazioni della famiglia Ballanza. Nel 1840 assistiamo ad una levata di scudi clamorosa contro il parroco don Giovanni Maria Foscarini. In una lunga lettera indirizzata al regio commissario Distrettuale del Regno Lombardo-Veneto, si accusa questo prete di essere un sollevatore di popolo, di essere un uomo ingiurioso e offensivo, tanto che neanche i cantori della chiesa vogliono più esercitare la loro funzione.

LA PARROCCHIALE

L’attuale chiesa di Ospedaletto è stata costruita nei primi anni del secolo XVIII, molto probabilmente sui resti di un precedente edificio qui esistente almeno dal 1445, se non prima. Fondamentale fu il contributo economico di un patrizio veneziano, nonché possidente locale, Domenico Quirini. La consacrazione della chiesa è opera del Vescovo di Treviso Mons.Giustiniani nel 1774. Lo stile è barocco e veneziano. Pregevoli i suoi stucchi e i suoi marmi. Di valore particolare sono poi gli scaffali e le porte della sacrestia che risalgono alla fine del ‘600. Anche l’imperatrice d’Austria Maria Anna si interessa di questa chiesa tanto da offrire per la stessa nel 1864, ben 300 fiorini destinati al restauro. La chiesa è dedicata a S.Maria della purificazione: è a Lei che è dedicato il grande affresco posto sul soffitto. Il dipinto è attribuito al Tiepolo.Il campanile invece, considerato tra i più belli della zona in particolare dopo il suo restauro avvenuto nel 1984, sembra che nelle intenzioni dovesse essere a forma di torre. E’ un campanile costruito a strati: la prima parte che va da terra all’orologio fu costruita nel 1300, mentre la seconda e cioè sino alla cella campanaria risale al 1500.

OSPEDALETTO - LA CHIESA

Ora riprendiamo il nostro viaggio! Lasciamo la chiesa alle nostre spalle e proseguiamo in direzione est su Via Chiesa per altri 150 metri circa. Giriamo quindi a sinistra e procediamo per circa 400 metri sino a incontrare via Graziotto. Giriamo a sinistra. Facciamo 200 metri e usciamo sulla provinciale. Teniamo la sinistra e facciamo 50 metri. Quindi andiamo a destra in direzione nord. Facciamo 250 metri in Via Evaristi e quindi all'incrocio giriamo a sinistra. Facciamo 50 metri e quindi andiamo a destra. Siamo all'inizio di Via Comunello, una tranquillissima via di campagna di circa 1,5 km. Davvero piacevole la pedalata in questi spazi così belli ed aperti.  Finita via Comunello usciamo in via San Filippo Neri, in località Carpenedo, sconfinando quindi nel territorio comunale di Vedelago. Lì giriamo a destra. Facciamo circa 30 metri, passiamo la ferrovia e poco prima della caratteristica chiesetta, di Carpendo, fatti altri 50 metri circa, giriamo a destra. Facciamo circa 1,2 km inoltrandoci nella campagna e poco dopo un zig-zag usciamo su una nuova stradina. Lì giriamo a sinistra. Pedaliamo per altri 800 metri sino ad uscire sulla statale. Siamo sulla strada che unisce Istrana a Vedelago. Andiamo a sinistra e facciamo altri 50 metri circa sino a girare a destra in prossimità della stradina che scende a destra. Facciamo quindi una sorta di inversione a “u”. Procediamo per circa 300 metri sino a finire davanti ad una isolata abitazione. Noi teniamo la sinistra e proseguiamo per altri 300 metri circa sino ad uscire all’incrocio. Siamo a ridosso della recinzione dell’Aeroporto Militare. Teniamo la sinistra e corriamo ora sull’asfalto.

PEZZAN

Facciamo circa 800 metri sino a vedere alla nostra destra l’ingresso di una nuova Via. Nascosta tra le fronde si apre alla nostra destra una stradina sterrata davvero piacevole. Stiamo procedendo paino piano verso l’abitato di Pezzan d’Istrana. Tra improvvise curve e paesaggi di una serenità assoluta, procediamo per circa 1 km sino a giungere ad un incrocio ove procederemo dritti. Siamo ora in via Cavour. Fatti altri 300 metri eccoci a un coltello di case. Siamo alle Case Stefanoni nei pressi dell’omonima via. Proseguiamo dritti ancora per circa 900 metri sino a giungere all’incrocio con Via Montegrappa. Proprio lì davanti ecco il piacevolissimo “bar da Mogno” . Teniamo ora la sinistra e procediamo per circa 300 metri sino a giungere ad una rotonda. Teniamo la destra ed eccoci nel centro esatto di Pezzan di Istrana.

PEZZAN DI ISTRANA

Il toponimo. La prima origine del nome la si trova nel termine latino “Pettianus”. Sembrerebbe derivare in particolare da “fundus pettuanus” cioè terreno del colono Pettius (anus indica proprietà). La sua derivazione sarebbe quindi romanica. Ma la derivazione del suo nome è attribuita anche alla parola “pezza”, cioè appezzamento, l’unità di misura di un tempo per indicare i terreni.

 

Un po’ di storia.   Pezzan è di origini antichissime. Le prime tracce in ordine alla sua esistenza si ritrovano nel 996 laddove il vescovo di Treviso donò i boschi, il villaggio e la chiesa, allora di San Vito, al Monastero di Mogliano e ai benedettini. Questi poi girarono il tutto alle suore. Il dominio delle suore durò nei fatti sino al 1805 con l’avvento di Napoleone.  1517: la grande peste. Anche Pezzan risentì di questa tragica epidemia. Durante gli Anni Santi da questo periodo in poi calavano i pellegrini soprattutto dalla Germania e dalla Svizzera. Non mancano quelli che soggiornavano a Pezzan. La causa a Pezzan sembra fosse stata di tal Fraresso “colpevole” di aver dato l’ospitalità ad un pellegrino svizzero che risalendo da Roma portò qui il contagio. 1525: il furto sacrilego. Di quest’anno nella storia di Pezzan va’ senz’altro citato un episodio di cronaca importante: il furto dell’ostensorio. Un fatto che riaccese antiche rivalità paesane alla ricerca del colpevole di un furto così sacrilego: dopo alcune ricerche si scopri che i “pezzanesi” non c’entravano nulla, l’autore non era del paese.  Il secolo XVI. Un secolo davvero particolare questo per un fatto di ordine demografico. Si contano a Pezzan più di 800 abitanti, un numero non lontanissimo da quello di oggi. Perché? Il motivo è l’alimentazione della popolazione che avviene attraverso le grandi vie di comunicazione cui Pezzan nella sua parte nord è collegata: si tratta in particolare della antica via Postumia, luogo di scorribande ma anche di contatti e di permanenze. Si pensi che in quegli anni, il numero di abitanti era molto simile a quello di Castelfranco e di Montebelluna. Il 1700 e le baruffe con Sala. Le rivalità in particolare tra paesi vicini, e ancor di più se piccoli sono all’ordine del giorno; tra Sala e Pezzan che “se toca con na man” ne abbiamo di epiche. Ne ricordiamo in particolare una avvenuta nel 1700. Era successo che Sala si era drasticamente rifiutata di ospitare il vescovo e tutto il suo seguito (qualcuno dice per taccagneria). Se ne ricavò che qualcuno dovesse rimediare a questa “sfida”. Toccava a Pezzan dopo il rifiuto degli odiati cugini: ma non successe. All’arrivo del Vescovo e del suo seguito i “pezzanesi” chiusero cancelli e porte.

 

Pezzan oggi poco più di mille abitanti… ma nel 1952 erano 1250. Che è successo? E’ stato costruito l’aeroporto militare per la gran parte del suo territorio con la conseguenza che molte famiglie a seguito dell’esproprio dei loro terreni dovettero trovare posto altrove.

LA CHIESA  DI PEZZAN

La chiesa di Pezzan è dedicata a ai santi Vito Modesto e Crescenzio. Ed è a questi santi che è dedicata la pala dell’altare maggiore opera del 1850 e attribuita a Leandro Guadagnin. La pala dell’altar Maggiore: una strana storia. Questa stupenda pala per la verità, è arrivata a Pezzan per caso. Il suo posto infatti era occupato da una preziosissima tela di Palma il Giovane. Quest’ultima improvvisamente non venne più trovata: si disse che andò bruciata. Cosa strana se si pensa che qualche tempo dopo davanti alla chiesa vennero trovati 24 candelabri di ottone tutt'ora esistenti e la tela del Guadagnin, pala che ancora oggi ammiriamo. Quasi un “baratto” insomma! Si tratta di una chiesa del 700 in stile prettamente jonico. Consacrata nel 1770 e conclusa nel 1774. Autore della sua “benedizione” il Vescovo Giustiniani di Treviso. Di particolare rilievo poi il Battistero che porta scolpita la data 1673. Esso è stato costruito su una vecchia porta d’entrata. Nella chiesa troviamo inoltre una bellissima Madonna del Rosario risalente al 1606. E’ in legno e di autore ignoto. La particolarità di questa statua lignea è che la stessa veniva portata in processione ed invocata contro i Turchi nel periodo in cui esisteva questa minaccia.

Del campanile poi si sa che la sua costruzione risale al 1640, ma c’è chi sostiene che un primo abbozzo dello stesso si ebbe già dal 1300-1400. E’ di stile gotico e dalla punta fatta a “pigna”. Ma la prima entità parrocchiale a Pezzan è sorta nel 1200. Ecco quindi una prima chiesetta attorno alla quale sarebbe sorto il primo insediamento parrocchiale di Pezzan. Una chiesetta di legno e paglia collocata in località Posaracchi, località detta anticamente anche “castello”.

 

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Riprendiamo il nostro viaggio! Lasciamo la chiesa alle nostre spalle e dirigiamoci in direzione sud; 100 metri più avanti ecco allora un capitello. Il capitello che fa da crocicchio tra le vie Cal di Treviso e Via Montello.

CAL TREVISO

Teniamo la sinistra ed addentriamoci in via Cal Treviso.

 

LA VILLA DEI GIUSTINIANI

barchesse di villa Giustiniani - Copia.j
Verso Sala… Inoltriamoci quindi in via Cal Treviso…
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Facciamo 250 metri e quindi entriamo in Via Toniolo. Lì giriamo a sinistra. Altri 200 metri circa e giriamo a destra in Via Giustiniani. Facciamo 300 metri e attraversiamo la provinciale. Facciamo altri 50 metri e giriamo a sinistra in una stradina sterrata e con buone siepi, almeno nel suo primo tratto. Andiamo avanti così per almeno 600 metri.
VIA LE CALESELLE
Stiamo arrivando nel territorio di Sala e da questo momento la via assume il nome di Via le Caleselle. Andando avanti per altri 300 metri circa arriveremo in Via Piave. Lì svoltiamo a sinistra. Circa 200 metri più avanti siamo in Piazza a Sala d’Istrana
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SALA, IL TERRITORIO E LE ACQUE

 

Sala d'Istrana, la frazione più a nord del lungo e stretto territorio del Comune di Istrana, situata a 53 metri sul livello del mare, è un paesetto di poco più di 1.200 abitanti disteso sulle ultime propaggini dell'alta pianura trevigiana. Dista circa 15 km da Treviso.  Fino a qualche tempo fa e cioè fin prima dell'avvento dei moderni strumenti di informazione (internet ecc.), mi piace ricordare come questa piccola località fosse reperibile in testi generalisti come le enciclopedie, esclusivamente per una circostanza. Si diceva: " luogo in cui termina il suo corso il Canale della Vittoria". Questo era il massimo della notorietà consentito a questo paesetto. Da queste parti non vi sono fiumi o altri corsi d'acqua. L'acqua è stata qui portata in più riprese dal secolo XVI in avanti attraverso un complesso sistema di opere idrauliche che rispondo al nome di: Brentella (fine del XV sec. ed inizi del XVI sec.), e Canale della Vittoria (1923). L'acqua qui c'è perché ce l'hanno portata gli antenati. Ed è questa acqua ed il complesso sistema di fossi scavati e naturalizzati e seriole (canalette) che permeano tutto il territorio.

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UN PO’ DI STORIA

 

Origini e toponimo. Sulle origini di Sala si sono fatte diverse ipotesi. Tutte però hanno in comune un periodo storico e cioè tutte si rifanno a periodi successivi alla costruzione nel 145 a.C. della strada romana Postumia.

Nello stesso posto ove oggi esiste l’agglomerato urbano i romani avrebbero installato una sorta di loro centro operativo denominato “aula” in italiano “sala”. Si trattava per lo più di un centro per il recupero di soldati bisognosi di cure che qui si fermavano e poi una volta guariti ripartivano. Pare poi che questa prerogativa fosse stata conservata nei secoli successivi e cioè durante le invasioni barbariche ed in particolare dei Longobardi. Una delle interpretazioni sulla origine del nome di questo paese è legata appunto ad un termine longobardo “sala” che significava “orda di barbari”. Ma "sala" in longobardo è anche un'altra cosa: la sala era la struttura organizzativa della piccola proprietà terriera creata durante le prime fasi del Regno longobardo in Italia. Qui forse ne esisteva una. Ricordiamo che il paese si colloca lungo la via Postumia, direttrice della calata di re Alboino nel Nord Italia. Il nome deriva dal longobardo sala, termine in realtà presente anche in altre lingue germaniche (francone) che in origine significava "costruzione con un solo grande vano". Successivamente è andato ad indicare la casa padronale della curtis, ovvero la casa per la raccolta delle derrate dovute al padrone. Alle sale spettava infatti la riscossione della tertia, cioè del tributo pari a un terzo del raccolto, pretesa dall'aristocrazia dai contadini italici sottomessi, secondo uno schema consueto nei Regni latino-germanici.

Intorno al VII secolo la funzione di “sala”, venne poi confermata dai monaci provenienti dalla vicina abbazia di Nervesa. Qui si sarebbe costruito un ospizio e quindi una cappella intitolata a San Giacomo di Compostela nel IX secolo. Un santo straniero: perché? L’ospizio che c’era un tempo qui a Sala sarebbe servito anche per ospitare i pellegrini diretti verso Compostela.

 

Ma sulla origine del nome di Sala vi è anche un’altra ipotesi: qui vi sarebbe stata una “sala” dedicata ai divertimenti mondani di cardinali e Vescovi.

 

Storia e notizie. La prima volta che si parla di Sala in un documento scritto è in un atto del vescovo di Treviso Rozzone Calza risalente al 996. Ma scarse e sostanzialmente non attendibili sono le notizie risalenti a tale periodo. Dobbiamo passare quindi al 1014, anno in cui "la villa" di Sala, si sa, divenne proprietà del Vescovo di Treviso, tale Almerigo I per effetto di una donazione dell'Imperatore Enrico II detto il Santo, imperatore del Sacro Romano Impero d'Occidente sino al 1024.

 

Le notizie su Sala ovviamente sono spesso frammentarie e frutto quasi esclusivamente di fonti di natura ecclesiastica. Altra notizia che riguarda Sala risale al 1313: si dice che di Sala fosse tal Vendramino, un calzolaio. Si dice che avesse trattato con alcune spie per favorire la consegna della città di Treviso nelle mani di Cangrande della Scala. Vendramino, nativo di Sala appunto era approdato a Treviso su espresso invito della sua "corporazione", quella dei calzolai. Altro momento in cui Sala viene citata è a seguito di una disposizione data dalla Repubblica Veneta, in un periodo di grande scarsità di raccolti, che obbligava i contadini a portare in piazza Duomo e in piazza San Leonardo a Treviso, frumento, miglio grano e fave. Il nome di Sala compare nella lista dei contribuenti di quell'area denominata " Campagna di Sopra ", una sorta di distretto.  Nel 1300 il Vescovo di Treviso, decreta che Sala sia “cappella filiale di Istrana”. Vi destina quindi un rettore, una sorta di "parroco". Un significativo e decisivo passo per il riconoscimento da parte del Vescovo stesso dell'esistenza anche di questa piccola comunità. In sostanza stiamo parlando del primo "parroco" di Sala.

Il 1467: la storia di un falso Prete. In quei tempi era rettore, cioè parroco di Sala, tale Francesco da Padova. Fu in quel anno che lo stesso venne profondamente ripreso dal Vescovo in quanto si sosteneva che il prete non esercitasse più con cura il suo ministero. Il prete, replica pesantemente e decide però di abbandonare di sua sponte la comunità lasciando così un vuoto. Ma fa di più, affida la parrocchia ad un tizio che si proclama prete, ma che in realtà è un avventuriero e un vagabondo. Ovviamente non si celebrano più messe e non si danno più i sacramenti. Fino a che non interviene il Vescovo che impone a questo tizio di lasciare il suo incarico: di lui abbiamo il nome: si tratta di tal Marino Mandrusa.

Il 1525: anno di cui conosciamo il numero di abitanti di Sala: ben 150! Ma la notizia è importante perché la segnalazione è completata dalla precisazione che appena qualche anno prima gli abitanti erano almeno 100 di più. Che è successo? Forse la guerra che Venezia aveva in corso con il Ducato di Milano. Infatti a quei tempi bastava una guerra, una carestia, una epidemia a ridurre drasticamente il numero di abitanti e questo successe a Sala.

 

1552. la cappella di Sala cresce, viene dotata anche di fonte battesimale, anche se la stessa continua a dipendere da Istrana. Ricordiamoci sempre che quella di Sala è una cappella "filiale" cioè dipendente.

Il grande lascito della Contessa Pola. Si sa, le antiche comunità religiose si sono formate e mantenute anche con importanti “legati”, donazioni testamentarie. Una delle più significative si ha dalla Contessa Isabella Pola Alberti. Ma chi sono i Pola? I Pola e de Pola sono una nobile famiglia di origini istriane. Noti inizialmente come Sergi (e per questo ritenuti discendenti della romana gens Sergia), furono una delle casate più influenti di Pola e dell'Istria e traevano il nome proprio dal castrum Polae, il castello cittadino di cui furono feudatari. Rafforzatisi notevolmente con l'assunzione, specie nella seconda metà del XIII secolo, di numerose cariche e possedimenti, nel 1310 riuscirono a divenirne signori incontrastati, ma rimasero al potere per poco tempo. Respinti dalla Serenissima e dai conti di Gorizia nel tentativo di estendere i propri domini lungo la costa e verso l'interno dell'Istria e travolti dal malcontento per il loro governo tirannico, nel 1331 vennero cacciati durante una sommossa popolare aizzata dalla fazione cittadina rivale guidata dalla famiglia dei Gionatasi. A questo evento, non riuscendo la città a governarsi come libera repubblica causa le lotte interne e le pressioni esterne, seguì la spontanea dedizione a Venezia.

I superstiti della famiglia si trasferirono allora esuli a Treviso, dove figurano nel locale Consiglio nobile sin dal 1401. Nel 1607 Filippo Cristoforo si trasferisce in Boemia e dà inizio al ramo boemo della famiglia Pola i cui discendenti vivono tutt'oggi tra Praga ed il castello di Bukovec di cui sono proprietari.

Dicevamo che la Contessa Isabella lasciò al parroco di Sala ed in favore dei poveri di Sala e Pezzan diversi terreni siti a Villanova. Una citazione del 1852 la riguarda: “esisteva un monumento appartato posto in un angolo del cimitero che sorgeva nei dintorni della chiesa. Era ornato da un rigoglioso albero, un cipresso che la nobildonna aveva dato al parroco di allora per essere piantato lì. Ciò avvenne qualche anno prima che lei morisse. Oggi questa pianta non esiste più come ovviamente il cimitero che è stato spostato in via F. Baracca. 

Tra le date da annoverare come storiche per la comunità di Sala è senz'altro quella del 1797: è l'anno in cui Sala, da dipendente dal Podestà di Treviso, passa a far parte del Comune di Istrana: Sala è una frazione del Comune di Istrana dal 1797.

 

Qualche altra piccola pillola di Storia

Anno 1779: anno di (ri)consacrazione della attuale chiesa Parrocchiale

Anno 1850 (circa): anno di costruzione della cosiddetta "Contessa"

Anno 1913: costruzione della Sala Teatro nei locali retrostanti la canonica e oggi demolita

Anni 1915-1918: Sala è immediata retrovia nella prima guerra mondiale. Da ricordare che tra le sue campagne si nascondeva un aeroporto di guerra da cui decollava anche il mitico Francesco Baracca, ricordato anche per il cavallo bianco con cui si aggirava per le strade del paese.

Anno 1941: il 14 luglio il cielo di Sala è attraversato da un’aereo in fiamme e, poco dopo, squarciato da un tremendo boato: un velivolo militare era precipitato al suolo vicino all'incrocio tra via Postioma e via Francesco Baracca.

Anno 1943: il 5 settembre parte del territorio parrocchiale di Pezzan, per ragioni logistiche viene incorporato a quello di Sala.

 

Altre pillole di storia le affronteremo man mano che la nostra pedalata procederà.

E' bene partire a questo punto: e da dove possiamo partire se non dalla "piazza di Sala" in via Piave e nei pressi della Parrocchiale di Sala. Stiamo parlando del nucleo centrale di Sala d'Istrana.
Sulla nostra sinistra, prima la canonica, ora denominata "Casa San Giacomo".
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Poco oltre, sempre sulla nostra sinistra ecco il complesso della Chiesa Parrocchiale.

LA CHIESA PARROCCHIALE DI SALA - SAN GIACOMO

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In ordine alla esistenza di una prima chiesa a Sala già si sa qualcosa di certo sin dal 1330 in quanto è proprio in quell’anno che il Vescovo di Treviso decreta che la cappella di Sala sia filiale di Istrana e quindi vi assegna un rettore, cioè un parroco. Pochi sanno che, come accadeva spesso in quegli anni, il culto venne sospeso per molto tempo e così la celebrazione delle sante Messe. Da segnalare un fatto importante in questa direzione: è il 1597, anno in cui si assiste, per intervento del vescovo di Treviso al ripristino delle celebrazioni solenni in quel caso in onore dei santi Bovio e Dipendente. La costruzione della attuale chiesa, almeno per il suo assetto odierno risale però al XVIII secolo. Ma è nel 1779 che si parla di (ri)consacrazione della chiesa. Questa avvenne per opera del Vescovo Paolo Francesco Giustiniani: più precisamente siamo nel giorno 16 maggio 1779.

Ma la chiesa come la vediamo oggi, non è sempre stata così:

- nel 1855 il parroco don Francesco Granzotto intervenne per alzarne il tetto e per restaurarla abbellendola di stucchi e fornendola di altre cose che mancavano tra cui la pavimentazione in marmo fine e la pala dell'altare maggiore dedicata a San Giacomo

 

- altra data importantissima per questa chiesa è il 1950. La chiesa viene ampliata in maniera significativa: la navata di lunghezza passa da 14 a 20 metri: un grosso ampliamento davvero.

L'orientamento della chiesa. Come quasi tutte le chiese costruite in quegli anni, la chiesa ha un orientamento est- ovest, e più precisamente: ad est si trova l'altare maggiore e a ovest l'ingresso. Perchè questo orientamento? Sin dagli albori del cristianesimo era diffusa la tradizione di orientare i templi, o più in generale i luoghi di culto, verso la direzione est secondo il criterio denominato “Versus Solem Orientem” in quanto, analogamente ai pagani, anche per i cristiani la salvezza e la rinascita erano collegate alla generica direzione cardinale orientale. Gesù Cristo aveva come simbolo il Sole (Sol justitiae, Sol Invictus, Sol Salutis) e la direzione est era simbolizzata dalla croce, rappresentazione del simbolo della vittoria. La simbologia solare così direttamente collegata al Cristo richiedeva quindi un’attenta progettazione dei luoghi di culto e un altrettanto attenta loro orientazione rispetto alle direzioni astronomiche fondamentali. Nelle Costituzioni Apostoliche del IV e V secolo veniva raccomandato ai fedeli di pregare dirigendosi verso l’est e lo stesso celebrante durante l’” Actio Liturgica” doveva parimenti essere rivolto in quella direzione; le Costituzioni Apostoliche, pur non risalendo agli stessi Apostoli, riflettono sicuramente le usanze e le consuetudini più antiche in questo senso. Come conseguenza di tali prescrizioni, tecnicamente si rese necessario progettare e costruire le chiese orientate con l’abside verso oriente e la facciata con la porta d’ingresso in direzione occidentale rispetto al baricentro della costruzione. Una delle personalità più prestigiose che contribuì a diffondere l’idea e l’abitudine di orientare i luoghi di culto verso direzioni solari astronomicamente significative fu Gerberto D’Aurillac, noto anche come Gerberto da Reims, nato intorno nel 937 in Alvernia, nella Francia centrale, e monaco benedettino ad Aurillac e a Reims.

L'altare

E' senza dubbio l'opera più importante e bella di questa chiesa. Si ritiene che l'opera sia stata trasportata da Venezia dove il Brustolon aveva il laboratorio. Non è del tutto certo però che sia esattamente del Brustolon, forse più probabile la sua attribuzione è da far risalire a qualche allievo dello stesso. Qualcuno azzarda l'ipotesi che sia stato acquistato ad un'asta napoleonica.  Era infatti prerogativa dell'imperatore mettere in vendita alcuni dei capolavori razziati. L'opera è di chiaro stile barocco: presenta colonne tortili decorate con tralci di vite, un fregio con foglie d'acanto su fondo azzurro; all'esterno vi sono due volute con cherubini. In alto nel timpano altri due cherubini e al centro il simbolo dello spirito santo. Quattro sculture tutto tondo di angeli policromi con ali dorate sono poste in posizioni esterne alla trabeazione e su mensili sottostanti. Al centro dell'architettura è incorniciata una pala da intagli fitomorfi e accompagnata, nella parte terminale, da un fregio di festoni e maschere. Al centro dell'arco, nella chiave di volta, vi è una cestella che racchiude un'iscrizione. La cornice della pala è fiancheggiata da due piccole colonne scanalate con capitelli composti che poggiano sulla pradella; su di esse stanno le sculture a tutto tondo, forse di Maria e dell'arcangelo Gabriele.

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Qualche approfondimento...

Andrea Brustolon: il Michelangelo del Legno.

Andrea Brustolon (Belluno,  1662 – Belluno,  1732), nato da genitori zoldani a Belluno, non si sa con precisione da chi apprese i rudimenti dell'intaglio: fino a poco tempo fa si pensava che fosse stato il padre Giacomo il suo primo insegnante, ma in occasione di una grande mostra a lui dedicata si è scoperto che in realtà il padre era sarto. Nel 1677 si trasferì a Venezia, dove si formò alla scuola del genovese Filippo Parodi e si pensa che soggiornò in seguito a Roma per studiare le opere romane e del Bernini; l'ipotesi di questo viaggio è fondata in base al fatto che l'artista realizzò una piccola scultura in legno raffigurante Marco Aurelio, ma ovviamente ciò non è sufficiente per confermare la sua permanenza a Roma, poiché avrebbe potuto ispirarsi a disegni altrui.

Tornato a Venezia, si dedicò alla produzione di mobili in legno: numerosi furono i suoi committenti nobili, ad esempio i Correr e i Pisani; ma suoi grandi patroni furono in particolare i Venier, per i quali realizzò portavaso, poltrone e oggetti vari di arredamento. Per la Chiesa eseguì, invece, sculture in legno (spesso dorato) oggi conservate presso la Chiesa dei Frari, la chiesa della Pietà e quella della Fava.

Verso il 1720 tornò nella città natale e vi aprì bottega, trovando numerosi imitatori tra gli artisti del bellunese. Le opere di questo periodo, per lo più a tema religioso (altari lignei), gli vennero commissionate da tutte le principali sedi religiose della provincia e si trovano ancor oggi distribuite a Belluno, a Feltre, nello Zoldano, in Comelico, in Alpago e nell'Agordino. Fu sepolto a Belluno, nella chiesa di San Pietro, ma la sua tomba andò rovinosamente perduta durante alcuni lavori di ristrutturazione eseguiti nel 1831. La sua casa, un edificio quattrocentesco che si eleva sopra un breve portico, si trova a Belluno nei pressi del vicolo che conduce alla vicina chiesa di San Pietro. Sulla parete settentrionale nel 1891 è stata collocata una lapide che ricorda come ivi abbia avuto nascita e morte l'artista.

A Roma viene tutt'oggi chiamato "Sala del Brustolon" l'auditorium con i seggioloni dell'artista da cui il Presidente della Repubblica invia i messaggi televisivi di fine anno.

Honoré de Balzac, nel romanzo "Le cousin Pons", lo definì "le Michel-Ange du bois": "il Michelangelo del legno".  

La dedicazione della Chiesa. La parrocchiale di Sala d'Istrana è dedicata a San Giacomo Maggiore che è il Santo Patrono di Sala assieme a Sant'Eurosia.

 

SAN GIACOMO MAGGIORE Giacomo di Zebedeo, detto anche Giacomo il Maggiore, nato a Betsaida ( ma non ne conosciamo l'anno di nascita ) e morto a   Gerusalemme nel 44 d.C., fa parte della lista dei dodici apostoli di Gesù, secondo quanto riportato dai Vangeli e dagli Atti degli Apostoli. È detto «Maggiore» per distinguerlo dall'apostolo omonimo, Giacomo di Alfeo, cugino di Gesù, detto «Minore» o "il fratello del Signore".

Figlio di Zebedeo e di Salomè, era il fratello di Giovanni apostolo; secondo i vangeli sinottici Giacomo e Giovanni erano assieme al padre sulla riva del lago quando Gesù li chiamò per seguirlo. Stando al Vangelo secondo Marco, Giacomo e Giovanni furono soprannominati da Gesù” Boanerghes", «figli del tuono»; il tuono indica la voce di Dio: in tal senso "figli del tuono" indicherebbe la missione dei due fratelli di annunciatori della parola di Dio. Giacomo fu uno dei tre apostoli che assistettero alla trasfigurazione di Gesù. Secondo gli Atti degli Apostoli fu messo a morte dal re Erode Agrippa I.

Agiografia

Non esistono riferimenti archeologici diretti (come epigrafi) certi alla vita e all'operato di Giacomo, e nemmeno riferimenti diretti in opere di autori antichi non cristiani.

Al pari degli altri personaggi del nuovo testamento, per la cronologia e la vita di Giacomo non ci sono note precise. I testi evangelici lo indicano come un fedele seguace del maestro, ma il periodo precedente e seguente alla sua partecipazione al ministero itinerante di Gesù (probabilmente 28-30, vedi data di morte di Gesù) è ipotetico e frammentario.

Giacomo viveva, e probabilmente era nato, a Betsaida, località della Galilea situata sul lago di Genesaret.; era pescatore insieme al padre, Zebedeo; si ritiene che sua madre fosse Salomè, una delle donne testimoni della crocifissione di Gesù sul Golgota. Giacomo aveva (almeno) un fratello, Giovanni. Sempre rimanendo nel campo delle ipotesi, si può supporre che la famiglia di Giacomo appartenesse al ceto medio, in quanto dedito alla florida attività della pesca con tutta la sua famiglia. Sua madre forse faceva parte del seguito di agiate donne che provvedevano alle necessità economiche del gruppo itinerante (Lc8,2-3). Il fatto che nelle liste stereotipate degli apostoli nei sinottici (ma non negli Atti) Giovanni segua Giacomo, o che quest'ultimo venga spesso indicato come "figlio di Zebedeo", mentre Giovanni sia indicato come suo fratello, può lasciare concludere che Giacomo fosse il fratello maggiore di Giovanni.

Giovanni e Andrea furono, secondo il quarto vangelo (scritto, secondo la tradizionale identificazione cristiana, dallo stesso Giovanni di Zebedeo), i primi discepoli di Gesù, che essi seguirono dopo che Giovanni Battista lo aveva indicato loro come il Messia (Gv1,35-44). Il loro incontro avvenne subito dopo il battesimo di Gesù, all'inizio dell'attività pubblica del Maestro. Ai due si unirono quasi subito altri due fratelli, Giacomo e Simone, detto Pietro.

Il solo Luca (9,51-56) riporta un episodio che sottolinea il carattere focoso dei due fratelli Giacomo e Giovanni. Un villaggio samaritano (ebrei considerati scismatici) aveva rifiutato ospitalità a Gesù e i figli di Zebedeo propongono la sua distruzione tramite un "fuoco discendente dal cielo" (vedi l'omologo episodio di Elia in 2Re1,2-15), attirandosi il rimprovero del Maestro.

Sia Matteo (Mt20,20-23), che introduce l'intermediazione della madre , che Marco (10,35-40) riportano un episodio che indica il carattere ambizioso dei due fratelli. Questi avevano probabilmente una visione terrena del Regno predicato da Gesù e si aspettavano, in quanto particolarmente favoriti tra i suoi seguaci, un ruolo privilegiato in esso. Alla richiesta Gesù risponde evasivamente con l'assicurazione che "berranno il suo calice", cioè che gli saranno associati nella sofferenza e nel martirio. Giacomo verrà effettivamente martirizzato attorno al 44 (At12,1-2).

Insieme agli altri apostoli, Giacomo e Giovanni accompagnarono Gesù durante la sua vita pubblica, e alcuni episodi mostrano come Giacomo facesse parte della cerchia dei tre più fidati. Con Pietro fu testimone della trasfigurazione, della resurrezione della figlia di Giairo e dell'ultima notte di Gesù al Getsemani. Come appare evidente, sono tre situazioni molto diverse: in un caso, Giacomo e gli altri due apostoli sperimentano in modo diretto la gloria del Signore, vedendolo a colloquio con Mosè ed Elia; in occasione della resurrezione della figlia di Giairo, assistette ad uno dei miracoli più toccanti compiuti dal Maestro e ancora, al Getsemani, si trovò di fronte alla sofferenza e all'umiliazione di Gesù.

 

Una tradizione risalente almeno a Siviglia (VII sec. d.C.) narra che Giacomo andò in Spagna per diffondere il Vangelo. Se quest'improbabile viaggio avvenne, fu seguito da un ritorno dell'apostolo in Giudea, dove, agli inizi degli anni quaranta del I secolo il re Erode Agrippa I«cominciò a perseguitare alcuni membri della Chiesa, e fece uccidere di spada Giacomo fratello di Giovanni». Giacomo fu il primo apostolo martire.

Procediamo qualche metro e sempre sulla sinistra della strada una struttura "storica" per la comunità di Sala: si tratta della "Casa Rivaletto".

CASA RIVALETTO

Si tratta di un lascito (1973) della maestra Genoveffa Rivaletto, maestra storica di Sala d'Istrana morta nel 1973, alla veneranda età di 95 anni. Per circa 40 anni insegnò proprio qui a Sala, paese al quale era molto affezionata. Tra le varie cose fu insignita dal Ministero di Medaglia d'Oro. Nel corso degli anni 90, questo “pezzo di storia paesana” rischio di sparire, rischio di essere demolito con l’intento di dar respiro alla piazza antistante la chiesa. La casa, in quegli anni sede del “Gruppo del Giovedì”, uno dei più importanti gruppi spontanei sorti a Sala in quel periodo, venne salvata grazie ad un vero e proprio referendum tenutosi tra i banchi della chiesa.

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Procediamo ancora per circa 50 metri e sulla nostra destra ecco il piazzale antistante la "Contessa", dominato ora dalla statua del Cristo Re.

 

IL CRISTO RE

E' la statua che si trovava all'interno del Capitello che esisteva all'incrocio fra Via Piave e Via Cal Longa, capitello demolito per far posto alle esigenze stradali. Il capitello era stato eretto dal parroco di allora, Don Antonio Borra esattamente nel 1900.  Ora quel capitello è sostituito da un'opera bronzea di Giuseppe Gatto.

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Transitiamo su questa piazza e in direzione nord, oggi davvero in rovina, ecco "Villa Loredan".

CASA LOREDAN

Già di proprietà della contessa Loredan di Venegazzù, questa costruzione, ormai cadente, conserva almeno in parte il suo antico stile rustico-veneto. La sua costruzione sembra risalire alla prima metà dell’ottocento. Al suo interno vi era una parte dedicata ad abitazione signorile e si sa che sul davanti un tempo vi era una grande scala. Al suo interno un tempo enormi stanzoni con pochi muri divisori che servivano da “sueri” cioè granai. Immensi granai per i raccolti delle immense proprietà della famiglia Loredan da queste parti. Queste mura costituirono per lungo tempo luogo di convergenza e spesso di asilo per contadini e mezzadri che venivano qui a depositare “le eccedenze” imposte.

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Ripartiamo e usciamo ora in via Francesco Baracca, via che percorre tutto il territorio di Sala da sud a Nord e dedicata ad un personaggio fondamentale nelle sorti "aeree" della Prima Guerra Mondiale.

 

SALA, LA PRIMA GUERRA MONDIALE, L’AEROPORTO E FRANCESCO BARACCA

 

Sala come tutto il territorio trevigiano, è stata scenario di guerra negli anni 1915-1918, la guerra di retrovia, quella degli approvvigionamenti e degli Ospizi. E’ proprio alle guerre combattute in volo che si lega il nome di Sala a quella del grande Francesco Baracca, mitico aviatore perito in un combattimento sul Montello. E’ proprio dall’aeroporto di guerra di Sala che spesso il grande aviatore decollava (e forse il precedente di un aeroporto a Sala ha qualche nesso con la costruzione del grande aeroporto militare negli anni 50 a Pezzan).

Di Sala si favoleggia anche circa una grande amore di Francesco Baracca per una donna di questi posti. Figura molto umana che tutti ricordano… in particolare per una frase che sarebbe stata pronunciata dallo stesso di fronte al corpo inerme di un nemico abbattuto in una delle sue tante battaglie aeree: “perché applaudire un’uccisione. Oggi a te, prode soldato, domani a me. Questa è la guerra!”

 

E LA SECONDA GUERRA…

 

E’ nella seconda guerra mondiale che Sala vive episodi drammatici. Nel 1941, le avvisaglie della violenza della guerra avvengono quando nel cielo del paese un rombo e un bagliore squarciò il cielo. Era un aereo militare che cadde in fiamme ove ora c’è la rotonda, cioè all’incrocio tra via Francesco Baracca e via Postioma. Questo il primo dei segnali. Anche Sala era piombata in guerra, in quella tremenda guerra!

Già nel 1942 poi ben 92 uomini erano partiti per la guerra. Il 7 aprile 1941, gli americani bombardano Treviso. Da 2000 a 4000 morti. Nemmeno il numero sarà mai certo. Di certo la funzione di Istrana che distante non più di 10 km da Treviso, accolse tra le sue braccia i profughi di questa tragedia. E così anche Sala!

Era Venerdì Santo, il giorno della Passione di Cristo e di Treviso. Sala diede molto anche alla resistenza e qui si nascosero diversi partigiani. Ma il 5 giugno 1944 qualcuno fece la spia. Alle sette di sera, piombò a Sala un gruppo di soldati nazi-fascisti, composto per lo più da SS. Fortunatamente i giovani del posto e i paracadutisti fecero in tempo a dileguarsi. Ma non bastava. Nove camion fecero scendere 200 soldati tedeschi e italiani. Entrarono nelle case e cercarono di stanare “i traditori”. Si trattava di trovare quattro paracadutisti inglesi e le minacce di morte e le angherie verso coloro che si rifiutavano di collaborare non si contavano!!!

 

Procediamo su via Francesco Baracca per circa 100 metri e quindi a sinistra per via Martiri della Libertà. Avanti per circa 500 metri e quindi a destra a nord per via Campagna. Questa via segna il confine con la vicina frazione di Pezzan.

SALA E PEZZAN, I PAESI "RIVALI"

Le rivalità in particolare tra paesi vicini, e ancor di più se piccoli sono all’ordine del giorno; tra Sala e Pezzan che “se toca con na man” ne abbiamo di epiche. Ne ricordiamo in particolare una avvenuta nel 1700. Era successo che Sala si era drasticamente rifiutata di ospitare il vescovo e tutto il suo seguito (qualcuno dice per taccagneria). Se ne ricavò che qualcuno dovesse rimediare a questa “sfida”. Toccava a Pezzan dopo il rifiuto degli odiati cugini: ma non successe. All’arrivo del Vescovo e del suo seguito i “pezzanesi” chiusero cancelli e porte.

 

Pedalato su via Campagna per circa 1,3 km proprio di fronte ecco un " tempietto": è quella che tutti chiamano "La chiesetta della Madonna del Pra'".

LA CHIESETTA DELLA MADONNA DEL PRA'

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Chiesetta eretta nel corso del XVII secolo e dedicata alla Madonna delle Grazie (nota però come chiesetta Al Pra’, cioè nei prati, nella campagna). Venne costruita anche per ricordare la forte pestilenza che infierì sulla popolazione in quegli anni e come riconoscimento alla morte scampata. Solo un secolo fa questo che originariamente era un capitello, è stato ristrutturato diventando a tutti gli effetti una piccola chiesa. Dal 1987 poi, con la apposizione di lapidi commemorative è diventato anche “tempietto dei dispersi in guerra”.

Siamo ora in via Postioma

LA POSTUMIA ROMANA

La Via Postumia è una via consolare romana fatta costruire nel 148 a.C. dal console romano Postumio Albino nei territori della Gallia Cisalpina, l'odierna pianura padana, per scopi prevalentemente militari. Congiungeva per via terra i due principali porti romani del nord Italia, Genova e Aquileia, grande centro nevralgico dell'Impero Romano, sede di un grosso porto fluviale accessibile dal  Mare Adriatico.

Giriamo ora a sinistra per qualche metro sino a vedere sulla nostra destra via dei Tre Comuni. Siamo nei pressi di una nota azienda agricola, nota in particolare per la produzione di squisitissime mozzarelle di bufala: la Azienda Agricola Tre comuni.

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Passiamo oltre e proseguiamo per via Tre Comuni per circa 900 metri e quindi dritti nei pressi di una grande azienda di distribuzione di gas. Poco oltre sulla destra un luogo particolare: Il capitello di Sant'Antonio della famiglia Feltrin.

IL CAPITELLO DI SANT'ANTONIO

 

E' il 13 giugno del 1958 e su terreno allora della Parrocchia di Sala, il parroco di Sala, Don Giovanni Gattoli benedice e inaugura un capitello: quello di Sant'Antonio. A volere il capitello è stata la famiglia di Vito Feltrin che intendeva così saldare un vecchio conto con la provvidenza: lo scopo del capitello è quello di ricordare e ringraziare per uno scampato pericolo incorso al sig. Vito nel 1918 quando aveva solo 12 anni.

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Lasciamo il capitello "Feltrin" e andiamo ancora a nord per altri 600 metri e quindi a sinistra. Percorsi altri 300 metri e nei pressi di una nota trattoria (siamo sconfinati per un po' nel territorio di Trevignano), giriamo a destra in direzione sud. Percorriamo questa via per circa 300 metri sino a vedere sulla nostra sinistra una strana costruzione che da queste parti chiamano "pilastrone”. Siamo infatti in località Pilastroni. Lasciamo il "pilastrone" e procediamo ancora per altri 100 metri, e andiamo a sinistra entrando in via Francesco Baracca. Solo 100 metri e quindi giù a destra su via Ca'Pozzebon. Cominciamo a pedalare tra siepi e improvvisi spazi che si aprono. Sulla nostra destra lo scorrere di un corso d'acqua, che seppur "naturalizzato" per gran parte, è in realtà di origine artificiale. Da dove viene quest'acqua?

ACQUE

Quest'acqua viene dal canale della vittoria che poco più a nord finisce il suo corso diramandosi in diverse seriole o canalette di irrigazione. 

 

IL CANALE DELLA VITTORIA DI PONENTE

Il canale della Vittoria di Ponente è un corso d'acqua artificiale della provincia di Treviso. Esso si alimenta prelevando parte delle acque del Piave all'altezza di Nervesa della Battaglia (nello stesso punto tra l’altro ove si originano i canali  Piavesella di Nervesa e della Vittoria). Segue per un tratto il perimetro meridionale del Montello e a Giavera, dopo l'immissione del canale del Bosco, piega verso sud sfiorando  le frazioni di Camalò di Povegliano e Musano di Trevignano. Termina nella zona di Sala di Istrana, alimentando qui tutta una serie di canalette minori fondamentali per il sistema irriguo della zona più a sud. Il canale fa parte di un articolato sistema che assicura l'approvvigionamento idrico della zona posta tra il Piave e Treviso. Comprende, tra gli altri, la Brentella di Pederobba (che si divide nei canali di Caerano e del Bosco), la Piavesella di Nervesa e il canale della Vittoria. Ideato già nel 1886, il progetto si concretizzò trent'anni dopo grazie all'interessamento della Cassa di Risparmio della Marca Trivigiana. Gli eventi della guerra però, costrinsero a rimandare ulteriormente i lavori e solo nel 1921 venne costituito il Consorzio intercomunale destra Piave-Nervesa per la derivazione del Canale della Vittoria. L'opera fu terminata rapidamente e nel novembre 1925 fu inaugurata alla presenza niente di meno che di Vittorio Emanuele III re d’Italia.

Pedalato per altri 1,2 km su via Ca'Pozzebon, usciamo ora in via Postioma e giriamo a sinistra. Percorriamo via Postioma per 900 metri e alla rotonda prendiamo la terza uscita in direzione nord. Siamo tornati in via Francesco Baracca. Altri 900 metri ed ecco sula nostra destra una chiesetta: da queste parti per semplificare la chiamano "la Madonna di Fatima" ma in realtà più propriamente si tratta della chiesetta della MADONNA PELLEGRINA

CHIESETTA MADONNA PELLEGRINA O DI FATIMA

Lasciamo ora la chiesetta e addentriamoci in via dei Pieri. Circa 500 metri più avanti faremo il nostro incontro con il Canale della Vittoria di Ponente, nei luoghi in cui in sostanza termina la sua corsa.

ACQUE DI SALA.jpg

Procediamo per circa 1 km e quindi a sinistra transitando sopra un ponte.

PONTE SUL CANALE DELLA VITTORIA
Poco oltre teniamo la destra. Avanti ancora per circa 300 metri in via Sartori e quindi a destra, riattraversiamo il Canale della Vittoria e teniamo la destra sulla stradina che corre a ridosso di una nota azienda. Circa 100 metri e quindi seguendo la principale andiamo giù a sinistra. Notiamo ora un corso d'acqua sulla nostra sinistra.
ACQUE DEL NORD
Siamo molto vicini al Canale della Vittoria, ma quell'acqua non viene solo da quel canale. Da dove viene quest'acqua? Queste acque vengono anche dal canale Brentella e precisamente dalle seriole che si aprono a conclusione dello stesso poco più a sud del Mulino Caberlotto a Trevignano.
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IL BRENTELLA

 

Il Brentella è un canale originariamente destinato all’approvvigionamento idrico ed alle utilizzazioni idroelettriche e successivamente anche all’irrigazione. Fa parte di quel sistema di canali realizzati nella campagna trevigiana sin a partire dal 1500, grazie alla importante opera in particolare di Fra’ Giocondo. Lo scopo era ed è, per molti aspetti, quello di incanalare le acque del Piave verso la pianura a sud per usi prima di tutto irrigui. Il Canale di Caerano nello specifico è in realtà una diramazione del più importante Canale di Brentella, che scendendo in direzione sud ovest da Crocetta del Montello giunge poi a Caerano. Qui ha inizio il canale. Lo stesso poi attraversa i centri abitati di Caerano, Contea, Montebelluna e chiude il suo percorso nelle campagne poste a nord est di Trevignano ove si dirama in diverse “canalette”.

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Riprendiamo il nostro viaggio. Scendiamo su uno sterrato anche parecchio sconnesso in alcuni punti per circa 800 metri e quindi andiamo a destra. Avanti per altri 200 metri e poi la stradina svolta decisamente a sinistra. Poco oltre siamo nei pressi di alcune case (Tonon e Fuser). Procediamo ancora a sud per altri 800 metri (siamo in via Cal Longa) e quindi ritorniamo sulla Postioma. Lì giriamo a destra. Fatti circa 300 metri, sulla nostra sinistra ecco VAKA MORA, importante azienda agricola della zona. Visitata Vaka Mora andiamo a ovest per altri 300 metri e quindi a sinistra a sud in via Olimpia. La via richiama già dal suo nome, la presenza di una "qualche attività sportiva". Non saremo smentiti; scesi per circa 700 metri, sulla nostra destra ecco gli impianti sportivi e la sede del GRUPPO NOI DI SALA D'ISTRANA. Avanti ancora per altri 200 metri e noi giriamo a sinistra in via Giovanni Canil.

DON GIOVANNI CANIL

La via che stiamo percorrendo è intitolata al parroco di Sala tra il 1920 ed il 1940, tra le due guerre insomma.

Pedalato per altri 300 metri andiamo a destra su via Cal Longa fino a giungere all'incrocio con via Piave dopo altri 300 metri. E' qui che ci imbattiamo nel "capitello" di Cristo Re, opera di Giuseppe Gatto.
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Giriamo a sinistra e poco oltre procediamo dritti su via Piave. Circa 300 metri oltre sulla nostra destra ecco un porticato. Ci entriamo!
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Sul muro di destra, ormai ridotto a” niente” un affresco dedicato alla Madonna e ove si può intuire dalla figura del giglio, anche la presenza di Sant’Antonio. Una pittura muraria, una delle pochissime di questo territorio.
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Ho raccolto frammentarie informazioni su questo affresco. Sembrerebbe il dono di un artista girovago che per ringraziare per l’ospitalità ricevuta da queste genti, dipinse questa immagine. Pratica frequente mi si dice, da queste parti. Il pittore ovviamente è anonimo. Si intuisce in basso la scritta Pizzolato e poco altro.
PITTURE MURARIE DI VIA PIAVE (2).jpg
Ora continuiamo su via Piave per altri 300 metri. Sulla nostra destra, prima di entrare in via del Tiepolo, un altro bel capitello: quello degli "STEFANON".
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Entriamo quindi a destra in via del Tiepolo e procediamo per circa 1 km. Sulla nostra sinistra la cancellata di un’area militare; noi andiamo dritti su via Cal di Sala. Campagna profonda ora per 700 metri (transitiamo nei pressi di un gruppo di case) e usciamo quindi in via Roncalli. Lì teniamo la sinistra e saliamo per 400 metri e quindi a sinistra nuovamente sullo sterrato. Ci addentriamo nuovamente in piena campagna per 1,1 km.
ACQUE DI PASSEGGIATA
Giriamo ora a destra e facciamo altri 400 metri su via del Tiepolo, la più bella via di Sala, quella ideale: acqua, siepi, visioni, pochissimo traffico.
via del tiepolo (3).JPG

Ora entriamo a sinistra in via Cal dei Mori e la facciamo tutta per altri 300 metri: ora a sinistra sui via Cal Longa ove scenderemo per altri 600 metri.

Ora a destra in via Piave e di lì avanti per altri 600 metri. Ora a sinistra. Fatti alltri 4 km ci ritroveremo al semaforo di Istrana. Ora a sinistra e qualche metro più avanti sulla destra ecco nuovamente Ca’ Celsi, il luogo da cui eravamo partiti circa 56 km fa. Qui si chiude il nostro viaggio

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